domenica 21 marzo 2010

Breve storia popolare dell'acciaio

Chimica News, n. 31, 22-24 (marzo 2010); Inquinamento, 52, (122), marzo 2010

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

L’acciaio, il re dei materiali da costruzione, 1400 milioni di tonnellate di produzione annua nel mondo, non avrebbe potuto diventare quello che è, indispensabile per ponti, scatole di conserva, edifici, cannoni, navi, pentole, automobili, eccetera, senza una buona chimica, dapprima impiegata empiricamente poi, col passare del tempo, applicata consapevolmente anzi arricchita a mano a mano che venivano inventati processi che permettevano di ottenere più acciaio, di migliore qualità a minor prezzo.

Benché il ferro sia uno dei metalli più abbondanti sulla Terra, la chimica si è divertita a portarcelo via di mano trasformandolo dallo stato elementare in ossidi, idrati, carbonati, solfuri, attraverso il continuo contatto con l’ossigeno dell’aria e con le acque e i loro sali. Qualcuno deve avere scoperto, circa tremila anni fa, che scaldando in qualche modo quella terra rossastra si otteneva un materiale duro, un “metallo”, utile per frecce, corazze e spade, vanghe e martelli; più tardi i soliti abili cinesi e gli arabi avevano capito che la trasformazione degli ossidi in ferro era facilitata dal riscaldamento in presenza di carbone, ma soltanto nel 1600 si è cominciato a comprendere le reazioni chimiche che stanno alla base della siderurgia.

Tanto per cominciare, a capire che il carbone “portava via” l’ossigeno dagli ossidi liberando il metallo; l’operazione si poteva fare in piccole quantità per volta scaldando in piccoli forni fusori, i “bassi fuochi”, il minerale con carbone di legno, l’ingegnoso materiale ottenuto “copiando” quanto avviene durante gli incendi dei boschi. In pochi anni, nei primi decenni del Settecento, furono fatte le due scoperte fondamentali; nel 1709 Abraham Darby (1677-1717) scoprì che si poteva condurre la stessa reazione di riduzione usando, al posto del fragile e costoso carbone di legna, il carbone coke che era ottenuto scaldando in assenza di aria il carbone fossile (lo stesso principio per cui la legna si trasforma in carbone di legna). La scoperta fu motivata anche dal fatto che i primi decenni della siderurgia avevano richiesto grandi quantità di legna e i boschi stavano rapidamente sparendo, un po’ come rischia di succedere oggi col petrolio.

Del resto già nella metà del 1600 i birrai avevano scoperto che il carbone fossile usato come combustibile generava dei fumi che danneggiavano la qualità della birra e che il coke era invece un combustibile “pulito”. Il carbone coke, duro, privo di zolfo, resistente alla pressione, si prestava bene in siderurgia per la riduzione del minerale di ferro e Darby condusse la reazione in forni verticali, “altiforni”, in cui dall’alto era caricato coke e minerale e dal basso si soffiava l’aria necessaria per trasformare il coke in ossido di carbonio capace di trasformare gli ossidi di ferro in ferro fuso.

Gli altiforni furono ben presto perfezionati da Abraham Darby II (1711-1763) quando prese in mano l’azienda del padre. L’altezza dell’altoforno fu aumentata, col che era possibile aumentare la produzione di ferro di ciascuna carica, e alla miscela fu aggiunto calcare che reagiva con le materie estranee del minerale formando una massa fusa di scorie, le “loppe”, che più tardi si sarebbero rivelati utili come ingredienti del cemento: al solito un rifiuto trasformato in materia prima.

Nei primi decenni l’aria veniva insufflata fredda nell’altoforno; per diminuire il consumo di carbone, sempre nello spirito di fare di più con meno --- una pratica che era ben presente agli imprenditori anche prima dell’ambientalismo --- Jean Beaumont Neilson (1792-1865) nel 1828 brevettò l’idea di insufflare nell’alto forno aria preriscaldata col calore dei gas caldi che uscivano dall’altoforno. Per migliorare questo recupero di calore Edward Alfred Cowper (1819-1893) nel 1859 fece un’altra invenzione “verde”: dal fondo di un grande tubo metallico verticale, pieno di umili mattoni disposti in maniera alternata, i gas caldi provenienti dall’altoforno entrano, passano attraverso la massa dei mattoni, scaldandoli, e vengono fatti uscire freddi all'esterno; a questo punto i mattoni hanno immagazzinato gran parte del calore dei gas e il ciclo viene invertito; l'aria fredda esterna passa attraverso la massa di mattoni caldi, si riscalda e viene immessa, il “vento”, nell'altoforno, con cicli alternati. Con le “torri Cowper” (usate ancora oggi), fu possibile diminuire il consumo di carbone di 10 GJ per tonnellate di ghisa, un bel successo se si pensa che oggi il costo energetico della ghisa si aggira fra 15 e 20 GJ/t.

L’altoforno aveva l’unico inconveniente che il ferro assorbiva una grande quantità, fino al 5 percento, di carbonio per cui il prodotto fuso ottenuto era una lega ferro-carbonio, la ghisa o “ferraccio”, in inglese ha il dispregiativo nome di “pig iron”, meccanicamente fragile, adatta in molte applicazioni, ma non per la fabbricazione di lamiere e tubi per macchine utensili, navi e armi.

A dire la verità un chimico, René Antoine Réaumur (1683-1757), aveva spiegato già nel 1722, che la differenza fra ghisa e acciaio dipende dal contenuto di carbonio che nell’acciaio è solo dell’1 percento; nei decenni successivi furono sviluppati vari processi di trattamento della ghisa fusa in grandi padelle metalliche scaldate all’aria mediante agitazione con adatte pale azionate da speciali operai, il puddellaggio. La lenta e faticosa operazione di puddellaggio, scoperta e brevettata nel 1784 da Henry Cort (1740-1800), consisteva sostanzialmente nella combustione, per esposizione all’ossigeno dell’aria, del carbonio della ghisa; il calore di combustione teneva fusa la massa di acciaio, a mano a mano che si formava, essendo il punto di fusione dell’acciaio superiore a quello della ghisa. Una volta capito il meccanismo della reazione di decarburazione della ghisa si trattava di passare dalla lenta e costosa operazione di puddellaggio ad un sistema più rapido e meno costoso.

Il 14 agosto 1856 il quotidiano inglese “Times” pubblicò per intero la relazione presentata due giorni prima alla riunione dell’Associazione britannica delle Scienze a Cheltenham, da Henry Bessemer (1813-1898), scienziato, imprenditore e inventore del primo processo per la fabbricazione su larga scala dell’acciaio. I lettori non potevano immaginare che quell’articolo avrebbe aperto una pagina della rivoluzione chimica. Il convertitore consisteva in un recipiente a pera che poteva ruotare intorno a due perni; la ghisa calda fusa, così come usciva dall’altoforno, veniva versata nella bocca del convertitore e veniva attraversata da una corrente d’aria preriscaldata; l’ossigeno ossidava la maggior parte del carbonio; il calore di combustione teneva fusa la massa di acciaio così formato che poteva essere fatta uscire inclinando “la pera” sui suoi perni. In questo modo diminuiva il tempo di trasformazione della ghisa in acciaio e quindi il costo dell’acciaio anche perché non c’era bisogno di apporto esterno di calore.

E’ difficile immaginare oggi l’effetto che l’invenzione ebbe sull’economia inglese e mondiale e si capisce che il principale quotidiano inglese dedicasse all’invenzione la propria prima pagina. Bessemer è stato un importante personaggio e il lettore curioso potrà trovare l’autobiografia, riprodotta in Internet http://www.history.rochester.edu/ehp-book/shb/
che racconta anche come Bessemer arrivò alla sua invenzione. Un convertitore Bessemer, con cui era possibile ottenere da 10 a 20 tonnellate di ghisa per volta, fu presentato all’esposizione di Londra del 1862 e attrasse subito l’attenzione; un primo convertitore fu installato in Italia nel 1865 nelle “Officine Perseveranza” di Piombino dove esisteva un altoforno a carbone di legna. L’impianto funzionò però soltanto due anni.

Ben presto ci si accorse che il convertitore Bessemer aveva alcuni inconvenienti; il suo interno era rivestito con un materiale refrattario siliceo, acido, e non riusciva a ossidare le ghise provenienti da minerali di ferro contenenti fosforo, come quelli della Lorena. La soluzione fu offerta, come è stato ricordato nel numero scorso di questa rivista [Chimica News, n. 30, novembre 2009, p. 18-10; Inquinamento, 51, (120), novembre/dicembre 2009], dai cugini Sidney Gilchrist Thomas (1850-1885) e Percy Gilchrist (1851-1935), che nel 1878 brevettarono la sostituzione del rivestimento refrattario siliceo del convertitore Bessemer con un rivestimento refrattario basico di calcare il quale fissava chimicamente il fosforo e anzi, una volta recuperato, rappresentava una fonte di fosfati di calcio adatti come concimi; altro esempio di recupero commerciale di residui di lavorazione, quelli che oggi chiameremmo materie prime seconde.

Un altro inconveniente era che nei convertitori Bessemer il processo di ossidazione era “troppo”veloce: una carica trasformava la ghisa in acciaio in un quarto d’ora e in così poco tempo non era possibile prelevare campioni e analizzare e controllare e eventualmente correggere la composizione della ghisa. Infine il convertitore Bessemer non poteva trattare i rottami di ferro che, nella metà dell’Ottocento, cominciavano a diventare disponibili in grande quantità in seguito all’abbandono di molti manufatti di acciaio.

Per recuperare l'acciaio da questi rottami ci sarebbe voluto un forno fusorio capace di trattare insieme i rottami, la ghisa e eventualmente il minerale di ferro, in modo da ottenere acciaio e leghe di acciaio della qualità voluta. Wilhelm Siemens (1823-1883) in Inghilterra aveva inventato, nel 1857, un forno dotato di un recuperatore di calore costituito da una massa di mattoni scaldati dai gas di combustione, un po’ come il “cowper”. Il forno Siemens era stato pensato per la fusione del vetro, ma l'industriale francese, Emile Martin (1794-1871) pensò che avrebbe potuto essere applicato anche alla fusione dei rottami ferrosi e mise a punto il forno che porta il nome Martin-Siemens per la produzione dell'acciaio.

I primi forni entrarono in funzione in Francia nel 1863 e si rivelarono un successo. Il processo di trasformazione in acciaio dei rottami miscelati, in opportuna proporzione, con ghisa e con minerale, si svolgeva lentamente, in circa due ore, il che consentiva di prelevare periodicamente dei campioni del metallo fuso la cui composizione poteva essere corretta a seconda delle esigenze dei produttori; per le analisi furono sviluppati nuovi metodi rapidi il che fece fare dei progressi anche alla chimica analitica. I forni Martin-Siemens, ciascuno dei quali aveva una capacità produttiva molto maggiore di quella dei convertitori Bessemer, potevano così fornire leghe speciali e con essi l'acciaio passò dalla sua infanzia alla maturità industriale: la produzione mondiale annua di acciaio passò dalle 22.000 tonnellate del 1867 a un milione di tonnellate nel 1880 a 28 milioni di tonnellate nel 1900 (nel 2009 è stata di circa 1400 milioni di tonnellate). Il primo forno Martin-Siemens in Italia fu installato nel 1876 a Piombino.

Comunque anche il processo Martin-Siemens ebbe un suo declino e fu sostituito da due processi, quello elettrico e quello a ossigeno, tutti e due orientati ad un ulteriore risparmio energetico, ad una maggiore utilizzazione dei rottami e ad una minore utilizzazione dei minerali e della ghisa e dei relativi processi inquinanti. Ma ormai siamo nel XX secolo.

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