sabato 13 marzo 2010

Gomma guayule

Il giovane storico Alberino Cianci nel 2008 ha pubblicato il bel libro: “SAIGA. Il progetto autarchico della gomma naturale. Dalla coltivazione del guayule alla nascita del polo chimico di Terni”, (casa editrice Thyrus, di Arrone (Terni) (www.edizionithyrus.it)), nel quale è stata ricostruita una pagina dimenticata della storia dell’industrializzazione italiana, nel turbolento periodo dell’autarchia fascista. Sulla base di un prezioso archivio, salvato fortunosamente, il libro tratta la storia dei tentativi di coltivazione, in Italia o nelle colonie italiane del tempo, di piante da gomma diverse dall’Hevea, l’albero che forniva e fornisce praticamente tutta la gomma naturale nel mondo e che cresce bene in climi tropicali.

Nel 1933 l’Italia dipendeva completamente per le importazioni di gomma dalle piantagioni di Hevea del Brasile e del sud-est asiatico, nelle mani delle grandi potenze coloniali, con le quali il governo fascista pensava o progettava di scontrarsi un giorno. Si sapeva che la gomma poteva essere ottenuta da piante e arbusti coltivabili in climi temperati e che alcune piantagioni erano in corso in Russia e in America; negli Stati Uniti la coltivazione di una di queste piante, il guayule, e l’estrazione della gomma erano effettuate dalla Intercontinental Rubber Company, presso la quale furono inviati alcuni tecnici italiani.

Nel 1936, subito dopo la conquista dell’Etiopia e le sanzioni economiche contro l’Italia, il governo fascista avviò contatti con la società americana per vedere se era possibile coltivare il guayule in Libia o in Sardegna o in Basilicata o in Puglia. La Intercontinental inviò in Italia un suo addetto che visitò le varie regioni e ne studiò le condizioni agronomiche; fu così stipulato un contratto (per alcune diecine di milioni di lire, che allora erano tanti soldi) secondo cui la società americana avrebbe inviato semi e piantine di guayule e collaborato alla loro messa a dimora. Di tutto questo ci sono lettere, telegrammi, fatture e resoconti nell’archivio studiato e descritto da Cianci. Nel 1937 fu creato un “Ente gomma guayule” e fu costituita, dalla Pirelli e dall’IRI, la SAIGA (Società Anonima Italiana Gomma Autarchica); fra i consulenti e gli amministratori figuravano nomi illustri come i chimici Bruni, Natta, Francesco Giordani e il finanziere Enrico Cuccia, futuro presidente di Mediobanca.

Falliti i tentativi di coltivazioni del guayule in Libia, nel 1938 furono acquistati alcuni terreni a sud di Cerignola, in Puglia, dove fu creato un vivaio in cui furono piantate, nella primavera del 1940 (poco prima che l’Italia entrasse nella seconda guerra mondiale), 25 milioni di piantine di guayule ottenute con i semi selezionasti fatti venire dalla California, da cui ci si sarebbe dovuti aspettare una produzione di mille chili di gomma per ettaro. Negli anni successivi (l’Italia era in piena guerra) la mancanza di carburante, di personale, di macchinari portò lentamente al fallimento e all’abbandono delle piantagioni foggiane di guayule. Nel 1944 i terreni destinati alla produzione della gomma furono occupati dagli Alleati e riconvertiti a cereali. Le proprietà della SAIGA a Cerignola furono vendute all’Opera Nazionale Combattenti e nel 1947 la SAIGA fu messa in liquidazione.

Intanto fin dal 1939 la SAIGA era stata incorporata in un’altra società, sempre della Pirelli-IRI, la SAIGS (Società Anonima Italiana Gomma Sintetica), che nel frattempo si era orientata verso la produzione di gomma sintetica dal butadiene; la SAIGS costruì una fabbrica della materia prima a Ferrara, in una zona dove esistevano molti zuccherifici; lo zucchero veniva trasformato in alcol etilico, e questo trasformato in butadiene. Il complesso di Ferrara fu acquistato dalla Montecatini e la produzione della gomma sintetica fu trasferita a Terni, deve era disponibile abbondante elettricità; qui il butadiene era ottenuto dall’acetilene a sua volta ottenuto dal carburo di calcio prodotto al forno elettrico. L’impresa cessò nel 1943. Dopo la guerra a Terni nacque un grande polo chimico della Montecatini/Polymer che a sua volta cessò di esistere nel 1977. L’archivio della SAIGA/SAICS sopravvisse a queste vicende, fu trasferito da Ferrara a Terni e qui fu salvato da un dipendente diligente e lungimirante che l’ha messo a disposizione dell’autore del libro prima citato.

E qui vengono spontanee alcune osservazioni; si parla tanto di conservazione dei “beni culturali”, intesi come le testimonianze della ricca storia italiana, ma non ci si accorge che stanno scomparendo o sono irrimediabilmente scomparsi archivi e raccolte di documenti, lettere, schemi di produzione relativi alla storia industriale del nostro paese. Non tanto quelli delle grandi industrie, alcune delle quali hanno un proprio archivio storico, ma delle innumerevoli imprese medie e piccole che pure hanno avuto un ruolo importante nella produzione e nel lavoro: è anche questa “cultura”. Per caso qualche raccolta di documenti viene recuperata o salvata e qualche volonteroso studioso si dedica a darne notizia e qualche benemerita piccola casa editrice li pubblica.

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