lunedì 20 febbraio 2012

Quali merci per il futuro ?

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

La nostra è davvero una società "dematerializzata" ?

La crisi di questo inizio del ventunesimo secolo non è soltanto crisi di bizzarrie borsistiche, di speculazioni sul denaro, di disordine politico interno e internazionale, ma è in gran parte crisi di merci, di materiali, di produzione. Anzi crisi della cultura della produzione, del lavoro.

A poco a poco è stata diffusa l'idea che la nostra sia una società fatta di immagini, virtuale, come si dice, per cui l'operazione del "consumo", dell'uso delle merci, il gesto di acquisto nel negozio e nel supermercato, non nascono dalla necessità di soddisfare dei bisogni --- di cibo, di bevande, di abiti, di scarpe, di mobilità --- ma sono "trascinati" dalla pubblicità, dallo spot televisivo, dal messaggio del "personaggio" di turno.

In questo modo si è persa la realtà fisica, materiale, delle  cose: anche i termini tecnici ---benzina "verde", acciaio inossidabile, pasta di grano duro --- sono  parole che il consumatore accetta sulla fede del testimone pubblicitario, senza chiedersi se sono associati a cose buone o cattive, utili o insensate. Da qui le distorsioni nei commerci internazionali, le guerre per la conquista di materie prime, mascherate da liti locali, da qui il crescente degrado ambientale.

A rendere più confuse le cose contribuisce la favola, messa in circolazione ad arte per attenuare o mascherare l'importanza del mondo del lavoro, della produzione, dell'agire,  secondo cui la nostra sarebbe sempre più una società "dematerializzata", che richiede sempre meno oggetti, cose, e che è basata sempre di più su servizi, in gran parte immagini e suoni. Il mondo degli operai, dei contadini, degli impiegati è così appiattito in una felice omogenea  folla di consumatori. Ma è poi vero che la nostra è, e sarà sempre più, una società "dematerializzata" ?

Peso e importanza della tecnosfera

In realtà tutta la nostra vita quotidiana è basata su cose materiali, su oggetti e merci, anzi su  un'enorme quantità di beni materiali che occupano un universo a se, il mondo della tecnosfera.

Tanto per cominciare, la quantità di materia che attraversa ogni anno la tecnosfera in Italia si può stimare di circa 700 milioni di tonnellate. Si tratta dei combustibili fossili (carbone, petrolio e prodotti petroliferi, metano, tutti insieme circa 200 milioni di tonnellate), di sabbia e ghiaia e cemento e pietre per le costruzioni, di prodotti alimentari vegetali e animali, di metalli (ferro, alluminio, rame, eccetera), di gomma, di tessuti, di materie plastiche (derivate dai prodotti petroliferi già contabilizzati, ma che continuano a girare nella tecnosfera dal settore dell'industria a quello delle costruzioni a quello dei consumi di breve durata come gli imballaggi). Dal precedentecalcolo --- per il quale comunque non esistono statistiche esatte --- sono escluse le masse dell’acqua (circa 40.000 milioni di tonnellate all’anno attraversano la tecnosfera in Italia) e dell’aria. Così come sono escluse le scorie delle attività di cava e miniera e gran parte dei sottoprodotti agricoli e zootecnici.

Ogni barattolo di marmellata, ogni lattina di conserva di  pomodoro, ogni fettina di carne che troviamo in un negozio ha alle spalle un grande movimento di materiali dai campi, agli allevamenti, alle industrie di trasformazione, alle città e ai paesi.

I caratteri chimici e fisici dei 700 milioni di tonnellate che ogni anno entrano nella tecnosfera in  Italia vengono modificati nelle operazioni industriali, nella distribuzione commerciale e nella vita domestica (in quest'ultima si svolgono le operazioni di "consumo").

Il peso dei residui dei processi di trasformazione e di "consumo" --- sottoprodotti, scorie e  rifiuti  gassosi, liquidi  e solidi (i soli rifiuti solidi ammontano complessivamente a circa 150 milioni di tonnellate ogni anno) --- risulta, sempre in Italia e in un anno, di circa 800 milioni di tonnellate. Il peso delle scorie --- gassose, liquide e solide --- è superiore al peso delle merci entrate nella tecnosfera perché, nel corso della trasformazione, i combustibili e gli alimenti vengono "bruciati", prendendo l'ossigeno dall'aria, con formazione di gas (soprattutto anidride carbonica) il cui peso è, appunto, maggiore di quello dei materiali bruciati.

Insomma, la quantità di scorie e sottoprodotti  è sempre maggiore della quantità di materia presente nelle merci, tanto che giustamente, fin dal 1966, qualcuno ha scritto che la nostra non è una "società dei consumi" (per usare il titolo di un celebre libro dell'economista Galbraith), ma una "società dei rifiuti".

La tecnosfera si gonfia continuamente

Sempre in Italia una quantità di materia che pesa fra 100 e 200 milioni di  tonnellate resta ogni anno "incorporata" nella tecnosfera sotto forma di edifici, strade, mobili, mezzi di trasporto, strutture a vita lunga, oggetti e aggeggi vari, per cui si può giustamente dire che la tecnosfera "si gonfia" continuamente, aumenta di peso e di volume fino al punto di rischiare di scoppiare.

La situazione è insostenibile per vari motivi: uno di questi è proprio l'impossibilità fisica di continuare a far crescere la sfera degli oggetti; la seconda è di natura, diciamo così, “ecologica": questa maniera di agire impoverisce le riserve di risorse naturali --- pietre, acqua, foreste, fonti di energia, eccetera --- riserve oggettivamente scarse, e fa aumentare la contaminazione ambientale ad opera dei rifiuti. La terza ragione sta nello squilibrio fra un Nord del mondo, stragonfio di oggetti, e un Sud del mondo ancora povero, che aspira a scimmiottare i consumi e i modelli di vita del Nord del mondo. Per materializzare il suo sogno, il Sud del mondo non può far altro che vendere al Nord del mondo materie prime e lavoro a basso prezzo, o importare per soldi, dal Nord del mondo, rifiuti e scorie.

Anni fa alcuni scrissero che occorreva edificare una società alternativa "sostenibile", capace di lasciare adeguate risorse alle generazioni future; in questi anni si è tenuto un gran numero di conferenze in cui i paesi industriali hanno fatto finta di mostrare tutta la loro preoccupazione  per il futuro, naturalmente senza che niente sia cambiato. Il dibattito sulla necessità di porre dei limiti  alla crescita del  mondo degli oggetti --- al  rigonfiamento della tecnosfera --- si è scontrato con le ferree leggi secondo cui la crescita  dell'economia e l'aumento dell'occupazione dipendono dall'espansione dei consumi materiali.

E così siamo arrivati alla crisi attuale, ad un tempo in cui appare che non è possibile pensare ad una società in continua espansione merceologica, ma neanche ad una società planetaria con costanti consumi e neanche ad una società sostenibile, perché è il funzionamento stesso della tecnosfera, secondo le attuali regole economiche, che lascia alle spalle un mondo naturale impoverito e più contaminato, e quindi meno idoneo ad uno sviluppo umano delle generazioni future. Come possiamo uscirne ?

La soluzione può essere offerta soltanto da una  nuova progettazione e fabbricazione delle merci, sulla  base dei vincoli di scarsità delle materie prime, della necessità di ridurre il peso e il volume delle scorie e dei rifiuti inquinanti, di un maggiore rispetto per la salute umana.

A dire la verità il processo è già avviato: altri paesi industriali stanno adottando questi mutamenti e alcuni mutamenti nella qualità delle merci sono stabiliti da norme dell'Unione europea, per lo più non adottate o violate dall'Italia; altre svolte sono inevitabili e possono essere facilmente anticipate. Proviamo ad immaginare come sarà il mondo delle merci e degli oggetti fra dieci anni.

Standardizzazione

Un importante passo verso l'economia dei materiali potrebbe essere offerto da una diffusione della standardizzazione e della sua cultura. La standardizzazione delle merci è nata per  esigenze industriali fin dall’Ottocento. (Per certe merci, per esempio per i libri, gli stampatori fin dal Rinascimento, per risparmiare la preziosa carta, si  erano attrezzati a stampare su un foglio standard, in  folio, oppure su un foglio diviso in quattro, in quarto, o in otto parti, in ottavo, eccetera).

Poiché, per esempio, era assurdo che in commercio ci fosse un grandissimo numero di tipi di viti con altrettanti tipi di dadi, l'industria meccanica ha deciso che tutte le viti e i dadi di questa terra rientrassero in un certo numero di tipi relativamente limitato, tutti con la stessa filettatura; tale fondamentale rivoluzione merceologica, che ha consentito di diminuire drasticamente gli sprechi di metalli e di tempo è stata dovuta a Sir Joseph Whitworth (1803-1887), autodidatta, inventore inglese, che meriterebbe un monumento.

A poco a poco la cultura della standardizzazione nelle fabbriche meccaniche e tessili si è andata diffondendo, il che ha permesso un grande risparmio di materiali e di tempo in tantissime altre lavorazioni. Alla standardizzazione deve il suo successo l’industria automobilistica: si pensi al successo della Ford T negli Stati Uniti, e al contributo dato alla vittoria degli Alleati, durante la II guerra mondiale (1939-1945), dalla “jeep”, l’automobile di cui si potevano sostituire, con i pezzi di un altro veicolo, qualsiasi parte guastata durante i combattimenti. A quanto pare nell’industria automobilistica le virtù antiche si stanno perdendo con la moda della personalizzazione e degli innumerevoli aggeggi e varianti che moltiplicano gli sprechi e le difficoltà di riparazione e manutenzione.

Più di recente la standardizzazione ha interessato il settore della carta; l'uso di formati unificati consente grandi risparmi di carta e di tempo nella battitura delle lettere, nel formato delle riviste, della fotocopiatura e nella trasmissione dei documenti, nella raccolta nei classificatori. Eppure nonostante le raccomandazioni internazionali, si vede che ancora molte riviste e molti libri sono stampati su carta con formati strani, non normalizzati. Chiunque abbia a che fare con una biblioteca sa quanto spreco di spazio sia provocato dalla presenza di libri di larghezza e lunghezza tanto diversi.

Se comunque in alcuni settori qualche progresso si è fatto, molto resta ancora da fare; si pensi alla grande varietà di dimensioni e di colore degli imballaggi di vetro, dalle bottiglie ai flaconi, il che rende  più difficili la riutilizzazione e il riciclo di tali imballaggi. Lo stesso vale per un gran numero di oggetti che arrivano nei negozi e nelle nostre case e che, pur svolgendo la stessa funzione, comportano spreco di spazio nei mobili e nei frigoriferi.

La moda e la fantasia degli stilisti contribuiscono a mettere in commercio oggetti, stoviglie, posate, bicchieri molti diversificati, il che comporta difficoltà nel lavaggio e nella conservazione nei mobili. Per non parlare della limitata standardizzazione nell'edilizia, nella prefabbricazione, nei mobili, nei gabinetti, nelle piastrelle, eccetera.

Riciclabilità e riutilizzabilità

La mancanza di standardizzazione fa sentire i suoi effetti in particolare nelle pratiche di riutilizzo delle merci usate e nelle difficoltà di manutenzione. Come si ricordava prima, chiunque abbia avuto un guasto ad una automobile in qualche posto al di fuori delle grandi città oppure all'estero non avrà fatto fatica a costatare come sia difficile ottenere dei ricambi anche per le parti più banali e diffuse. Ci sono centinaia di diversi tipi di tergicristalli, fanalini, lampade, contatti elettrici, viti, eccetera, per cui spesso una macchina o un dispositivo risulta inutilizzabile per tempi più o meno lunghi, o anche per sempre, a solo pochi anni dalla fabbricazione. Lo stesso vale per i numerosi elettrodomestici che entrano nelle nostre abitazioni.

La grande varietà di materiali impiegati rende difficile anche il riutilizzo delle merci usate alla  fine della loro vita utile. A parole sembra facile che l'alluminio usato possa, per fusione, generare nuovo alluminio, che dal vetro usato possa essere ottenuto altro vetro, eccetera. All'atto pratico le merci usate sono così complesse, composte di così diversi materiali, che il  riciclo spesso viene vanificato perché fornisce nuove merci di così scadente qualità da essere difficilmente accettate dai consumatori.

Da tempo le norme anche italiane prescrivono che gli imballaggi portino una sigla che indica se sono fatti di alluminio, ferro, vetro, carta, polietilene, polistirolo, eccetera. La sigla, in realtà, indica il tipo di ingrediente presente in maggiore quantità, ma spesso la materia di base è addizionata con coloranti o sostanze chimiche che rendono difficile la produzione di nuove merci partendo dalle merci usate.

Occorre mobilitare l'opinione pubblica e i legislatori perché le merci del futuro vengano progettate in vista di una più facile manutenzione e di un più efficiente riciclo. Chi sa che nei negozi e supermercati dei  prossimi anni non si trovino meno varietà e fantasia di confezioni e imballaggi, ma una maggiore attenzione alle condizioni che assicurino un riutilizzo delle varie  merci dopo l'uso ?

Il ruolo delle etichette

Un ruolo fondamentale avrà nelle merci del futuro il processo di comunicazione fra fabbricanti, venditori e consumatori. Tutte le merci hanno una etichetta e le etichette rappresentano il  veicolo con cui le merci "parlano" agli acquirenti: ciascuna merce si presenta al compratore non solo con i colori vivaci, ma con un messaggio, spesso stabilito dalla legge, attraverso cui il  consumatore dovrebbe essere informato del contenuto della merce e dei caratteri del suo imballaggio, dell'eventuale pericolosità o presenza di ingredienti dannosi alla salute.

In realtà c'è una specie di finzione giuridica: le merci parlano ma il fabbricante e il commerciante danno per scontato che il consumatore non capisce niente per cui tanto vale dire il meno possibile.

Solo per fare un esempio, una bottiglia si presenta dicendo di contenere "olio di oliva" e basta.  C'è certamente una qualche legge, pubblicata su una qualche "Gazzetta Ufficiale" della Repubblica, che specifica perfettamente che cosa è un olio di oliva, di che cosa è fatto, quali ingredienti contiene e quali sostanze non deve contenere. Nessun consumatore però andrà mai a leggere le centinaia di fascicoli della "Gazzetta Ufficiale" che contengono le innumerevoli norme sul commercio degli oli, delle marmellate, della frutta, eccetera. Una maggiore consapevolezza dei consumatori e una crescente vivacità delle loro associazioni, dovrebbero portare a norme che impongano su tutte le merci delle etichette più dettagliate invertendo una tendenza, che nel nome dell’adeguamento “all’Europa”, fa diminuire, anziché aumentare, le informazioni portate dalle etichette. E quando le informazioni “sembrano” aumentare, come nel caso dei cosmetici, esse sono scritte in maniera incomprensibile e illeggibile: pensate: con i nomi chimici in latino !

Molto c'è da fare, superando molti ostacoli, per ottenere che il consumatore sia informato sul contenuto e il valore di molte merci le cui etichette attualmente sono del tutto silenziose. E anche, nel caso delle “ecoetichette”, che possa avere un migliore controllo di come sono state assegnate.

Parlare meglio ai consumatori

Il successo di una svolta neotecnica verso merci  più sicure, più utili, capaci di soddisfare bisogni umani con minore impatto negativo sull'ambiente, dipende in gran parte dalla capacità del mondo della produzione e della distribuzione di parlare con i consumatori,  con i cittadini. Se solo una piccola parte dei soldi  investiti nella pubblicità fosse dedicata a spiegare come un  oggetto viene fabbricato, da quali materie prime, che cosa succede nel processo di trasformazione, a spiegare che cosa un prodotto contiene come sostanze utili, ma anche il "contenuto" di lavoro e di innovazione, certamente i rapporti fra cittadini e merci migliorerebbero rapidamente.

Si ha quasi l'impressione che vi sia una timidezza, o una svogliatezza, nel mondo della produzione e della distribuzione, nei confronti dell'informazione del pubblico. Forse si teme che il consumatore, sapendone di più, assuma una posizione critica, una disaffezione per l'immagine finora propagandata. Nel caso degli alimenti, per esempio, vengono talvolta fatti utili sforzi per l'informazione dietetica, nutrizionale, dei prodotti, ma ben poco viene fatto per spiegare come ciascun alimento è fatto, quale posto occupa nella grande circolazione di materia dall'aria e dal  suolo al mondo vegetale a quello animale, ai  processi di trasformazione. Ben poco viene spiegato sulla natura dei sottoprodotti, sulla loro riutilizzabilità.

Lo stesso vale per l'universo dei rifiuti; quando si parla della possibilità del loro riciclo, ben  poca attenzione viene riservata allo spiegare come questo riciclo avviene, quali nuove merci si ottengono. Una nuova chiarezza di linguaggio sarebbe essenziale sia per la diffusione e la comprensione dell'auspicato cambiamento merceologico, sia per la crescita di una vera cultura industriale in Italia. Cultura industriale non vuol dire, come molti l’intendono, lode acritica dell’impresa e dell’industria che, per definizione, farebbe il bene dei cittadini. Cultura industriale significa, invece, capacità, da parte dei cittadini, di conoscere e capire che cosa la fabbrica, spesso la fabbrica intorno alla propria casa, produce, quali materie impiega, quali scorie emette dal camino o dalle fognature. C’è da sviluppare e diffondere, a questo proposito, una storia della produzione agricola e industriale, una geografia della produzione delle merci. Che cosa si produceva, nella fabbrica abbandonata e cadente ? quali scorie sono state lasciate nel sottosuolo ? c’è il pericolo che queste scorie riemergano e contaminino le acque sotterranee ? Ma anche quale tipo di lavoro, di innovazione sono passati attraverso i muri della fabbrica abbandonata ?

Che cosa si produce nella fabbrica in cui lavorano i genitori dei bambini che vanno a scuola ? in cui lavoreranno forse i bambini stessi quando saranno adulti ? A quali pericoli, a quali fatiche e dolori, sono esposti i lavoratori nei campi e nelle industrie e negli uffici, per produrre merci e servizi che assicurano il nostro benessere ? Ma anche quale abilità è richiesta per produrre tali beni materiali ? Cultura industriale, quindi e insieme cultura del lavoro, del “fare”, della capacità di “fare bene” gli oggetti e le cose.

Uno dei pericoli del falso mito della dematerializzazione sta proprio in questa perdita del senso di materialità del mondo, degli oggetti, agricoli e industriali, da cui dipende la nostra vita e l’occupazione. Il successo di un indispensabile mutamento, della transizione verso merci e consumi in questo XXI secolo, dipende, infine, anche dalla diffusione di una informazione e cultura merceologica  popolare, che adesso manca. Ci sarebbe bisogno di un “dizionario” merceologico che aiuti i cittadini a comprendere che cosa le merci “dicono” con le loro etichette, che cosa sono, e come sono ottenuti, i materiali dei vari merci e prodotti e macchinari. L’unico “dizionario di Merceologia”, quello che si chiama “il Villavecchia”, dal nome dell’autore, risale agli anni trenta; una riedizione degli anni sessanta era molto modesta. Un tentativo è stato rappresentato dal “Dizionario tecnico-ecologico delle merci”, pubblicato dall’editore Jacabook di Milano nel 2011, ma è solo un inizio. Ci sarà qualcuno che vorrà ampliare l’impresa a carattere divulgativo e popolare ?

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